L’AMBIENTE MARINO PROFONDO: ULTIMA FRONTIERA DELLA CONSERVAZIONE DEGLI OCEANI

Dalla spiaggia emersa agli abissi; è questo il viaggio che i cittadini fanesi hanno intrapreso in questi mesi seguendo gli eventi e le attività di citizen science organizzati da FanoUniMar. Ed è proprio nell’incontro di giovedì 2 maggio che è stato affrontato il tema più enigmatico di tutti: cosa si cela negli abissi? C’è vita in quegli ambienti così lontani dalla nostra realtà?

Roberto Danovaro, eccellenza della biologia marina italiana, ha risposto alle nostre domande in maniera chiara e approfondita. Professore universitario, ricercatore e divulgatore, Danovaro si occupa di “mare e sostenibilità” cercando soluzioni per coniugare economia, benessere sociale e cultura. 

Danovaro ci illustra fin da subito come l’oceano sia stato il primo ambiente ospitante vita. Microscopici organismi marini cominciarono a produrre ossigeno circa 3 miliardi di anni fa; da allora vegetali, animali e altre forme di vita sempre più complesse conquistarono i mari e le terre emerse. Oggi sappiamo che gli abissi (4000-11.000 m) sono pullulanti di vita. Circa i 3/5 di tutti gli animali del Pianeta vivono negli ambienti profondi e per questo determinati habitat sono ad oggi di grande interesse nell’ambito della pesca, ma non solo; alcuni pesci come Macropinna microstoma sono caratterizzati da bulbi oculari rotanti, permettendo all’animale di guardare in tutte le direzioni, favorendo la sua abilità nel catturare le prede con movimenti rapidi e precisi. Queste caratteristiche naturali sono quindi di grande ispirazione per la ricerca robotica, in vista delle esigenze del futuro.

Di Kim Reisenbichler

Tra gli organismi adattati al buio, al freddo e alle elevate pressioni si trovano una vasta gamma di animali marini tra cui policheti, oloturie, copepodi, molluschi, crostacei e pesci che sfruttano il fenomeno della bioluminescenza per predare, per proteggersi e per riprodursi. Gran parte di queste creature sono utili all’estrazione di farmaci e alla diagnostica medica, oltre che essere essenziali al mantenimento degli equilibri ecosistemici e biogeochimici degli oceani. La ricerca molecolare si serve di alcuni di questi esseri viventi per condurre esperimenti e indagare su quale possa essere quell’ ”elisir di lunga vita” che li rende esseri centenari o addirittura millenari; ad esempio, Lamellibranchia luymesi è un anellide che vive oltre 650 anni, il cui DNA ha una capacità di riparazione molto più elevata di quella del DNA umano. 

(Photo: Charles Fisher)

Le più recenti scoperte del prof. Danovaro e collaboratori riguardano inoltre microbiomi situati a profondità elevatissime che utilizzano l’acido solfidrico al posto dell’ossigeno per proliferare, formando lunghi filamenti conosciuti come “capelli di venere” (Thiolava veneris). Una vita senza ossigeno viene condotta anche dai Loricifera viventi in bacini anossici ipersalini. La respirazione cellulare che li tiene in vita avviene all’interno di idrogenosomi che metabolizzano idrogeno; utilizzano quindi meccanismi adattativi particolari, oggetto di studi approfonditi che di riflesso portano l’uomo a chiedersi se si potrebbe mai trovare un’alternativa all’utilizzo di ossigeno anche per se stesso. 

E se pensavamo che gli abissi fossero una distesa di sabbia, ci sbagliavamo: ricchi di insenature, fosse, canyon e scarpate, gli ambienti rocciosi delle profondità oceaniche contengono innumerevoli noduli polimetallici, elementi preziosi e rari, il cui valore supera quello dell’oro di oltre cinquanta volte. Per estrarli e ricavarne un guadagno economico, le più grandi aziende moderne stanno optando per sistemi di aspirazione di piccole pepite metalliche.

Tuttavia l’urbanizzazione e l’industrializzazione hanno lasciato nel tempo la loro impronta anche e soprattutto negli abissi; è qui che troviamo plastica fluttuante, microplastica nei pesci di profondità e fluidi inquinanti come piombo che, scaricati in mare decenni fa, impattano e continuano ad impattare l’ecosistema per secoli, trasferendosi di generazione in generazione all’interno delle popolazioni che lo caratterizzano. Oltre l’inquinamento da rifiuti, anche la presenza di specie aliene, cambiamenti climatici e attività di pesca a strascico contribuiscono ad una sempre più incombente alterazione ecosistemica. 

La domanda quindi sorge spontanea: possiamo proteggere questi ambienti?

La risposta – sostiene Danovaro – è “sì, dipende”; dipende soprattutto dalla conoscenza che si ha degli ecosistemi profondi e dall’interesse che le istituzioni hanno nel finanziare attività di protezione e tutela verso le aree maggiormente danneggiate. L’ambiente “non è una questione di bandiera”, l’ambiente è un bene comune, è legato alla nostra salute e al nostro benessere, ci ricorda il professore. Quindi sì, la soluzione c’è, si può trovare se si comprende che l’ambiente non è e non può essere un tema solo di discussione politica, bensì un fattore comune da cui dipende la vita di tutte le popolazioni umane. 

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